Che ogni tipo di forma vibratoria sia suono è una certezza ma come queste diventino un linguaggio musicale è un enigma a cui ognuno trova risposte diverse. L’universo dell’invenzione musicale del nostro tempo soffre ancora di pesantissimi preconcetti che si sono manifestati sotto varie forme fin dall’inizio del XX secolo: (1) il divieto di reiterare le componenti della musica a favore di una varietà illimitata dei materiali all’interno dell’opera sonora, e (2) il controverso e violento rapporto con il passato musicale (e dunque anche con il futuro). A più riprese, nel corso del XX secolo, i compositori hanno rigettato le strategie compositive precedenti. L’apertura delle forme e dei processi compositivi ha permesso di “democratizzare” l’invenzione. Tutto può essere considerato un’opera sonora? Cosa comprende l’atto del comporre? L’assenza di una qualunque struttura è una fase embrionale dell’opera sonora oppure l’opera nasce come una struttura nella mente del compositore? Nelle prossime pagine esploreremo l’universo del comporre, ci interrogheremo sulle relazioni della musica di oggi con le forme del passato. Al centro della nostra riflessione ci sarà il principio di variazione, il principio di derivazione, la ciclicità in musica, il comporre per varianti microscopiche, il percorso di evoluzione delle forme arcaiche fino al nostro tempo, la metafora della variazione di luce e la forma-timbro, l’emancipazione delle strategie compositive, la percezione dell’opera attraverso una rete di relazioni a distanza temporale che il compositore ha coscientemente preparato per l’ascolto.
I. Introduzione
Questo titolo porta in sé una grande e provocatoria contraddizione annunciando che nelle prossime pagine parleremo del comporre la musica e in particolare di due diversi approcci: (1) la creazione e (2) l’evoluzione attraverso la variazione. Sono queste strategie veramente inconciliabili? Oppure se ci liberiamo da alcuni preconcetti possono esse convergere in un unico atteggiamento? L’evoluzione implica una crescita, la trasformazione degli elementi attraverso variazioni macroscopiche degli eventi musicali o varianti microscopiche del suono. La creazione al contrario presume la nascita di un’entità sonora prima inesistente, per esempio una nuova forma vibratoria (un nuovo timbro), oppure una nuova strategia che consenta di mettere in relazione i suoni. Comporre variando significa creare nuova musica?
Il nostro studio è un abbozzo di strategia compositiva che si fonda sulla supposizione che i principi compositivi di variazione costituiscano la base comune di numerose strategie della musica occidentale. La variazione in musica facilita la sedimentazione delle strutture sonore nella memoria e attiva la cognizione del suono. In un senso generale, questa matrice di principi costituisce un’unità normativa del sapere musicale. L’organizzazione dell’opera musicale attraverso la ri-esposizione ciclica a distanza temporale delle componenti formali (minime e macroscopiche), è l’aspetto che permette una lettura globale del linguaggio musicale. La condotta ciclica unita a l’elaborazione per varianti si trova nelle opere dell’antichità, in quelle del periodo tonale, atonale, seriale, stocastico, spettrale così come nella nostra epoca. Il principio di variazione si rintraccia specialmente nelle musiche millenarie e ancestrali di tradizione orale che sono una sorta di “DNA” della musica d’arte colta e che questa normalmente tratta come espressioni di un pensiero musicale di importanza relativa.
Il reperimento di una ripetizione variata di un’unità sonora è una particolarità del sistema di cognizione umana[1]. Noi sviluppiamo tale capacità a discernere le unità sonore e temporali simili micro-variate fin dai primi momenti della nostra vita durante i primi scambi proto-linguistici con i nostri genitori attraverso delle figure in eco [Imberty 2002a; 2002b][2]. L’eco è la figura più arcaica di ripetizione naturale che possiede intrinsecamente il principio di trasformazione sonora morfologica, spaziale e temporale. La ripetizione ciclica di un elemento sonoro può infatti creare una struttura temporale e produrre una forma dialogica primitiva poiché l’eco è una sorta di richiamo – o domanda/risposta – con se stessi ma anche con il mondo esterno. Le berceuses tradizionali e spontanee sono basate proprio su tale criterio.
Se parliamo di creazione e evoluzione nella scienza e nella metafisica, le parole si caricano di un senso particolare. Da alcuni decenni forti correnti neo-creazioniste sono sempre più violente nell’affermare che le teorie dell’evoluzione degli organismi non siano del tutto o per nulla valide. Il neo-creazionismo non accetta che le specie si siano formate per micro-mutazioni e in risposta con l’ambiente, che la variazione e il caso siano alla base della teoria biologica evoluzionistica. Non si riconosce che l’evoluzione abbia portato alla nostra condizione attuale come esseri umani e nemmeno che l’idea di “destino” e di provvidenza non abbiano più un senso per la scienza poiché molte variabili ambientali possono mutare il corso degli eventi. Dunque non si ammette che gli organismi siano in evoluzione nel nostro presente e che sia proprio questo presente a determinare un futuro non attraverso un disegno predeterminato ma in funzione della realtà[3]. I neo-creazionisti assumono posizioni dogmatiche e anti-scientifiche; per esempio si rinfaccia alla scienza di non poter spiegare l’evoluzione della coscienza umana e dunque si cerca di diffondere un approccio alla realtà di tipo spirituale o pseudo-scientifico. Nel dominio della musica recente e specialmente nella composizione, il senso che si dà a queste nozioni è certamente molto diverso ma il dibattito scientifico è rivelatore di una contrapposizione di principi e di approcci. Direi anzi che in musica il dibattito sulla creazione sonora e l’evoluzione sonora è debolissimo. L’idea di creare il suono dal nulla, piuttosto che usarne di già conosciuti, fu un’esigenza (decisamente giustificata) dei compositori durante gli anni 1950. In quegli anni, Karlheinz Stockhausen scrive che comporre significa creare nuove forme vibratorie (nuovi timbri, naturali e artificiali), organizzare un’opera coerente dove il microscopico e il globale sono in relazione e si fondono totalmente. Comporre il suono e non con il suono, si potrebbe dire. Nel testo Situation de l’artisanat. Critères de la musique ponctuelle, Stockhausen sostiene che le forme di variazione classica sono mezzi per produrre artigianato e non creare [Stockhausen 2016, 56-64]. Queste nuove posizioni estetiche erano indiscutibilmente necessarie all’epoca per rigettare totalmente, e staccarsi, da un mondo precedente la guerra in cui anche la musica tradizionale e classica era stata usata dai regimi totalitari come emblema identitario della nazione[4]. La nuova tecnologia emergente negli anni 1950 faceva affiorare la possibilità di creare nuove forme oscillatorie artificiali, nuove strategie di gestione del tempo e nuove idee per organizzare la materia sonora nel tempo dell’opera. Può tale desiderio di creazione radicale, che si è con ragione manifestato nelle generazioni della seconda metà del XX secolo, trasformarsi in una non-creazione caratterizzata da un approccio dogmatico per generazioni più recenti di compositori? Tale radicalizzazione e ossessione per il creare può portare alla produzione di entità sonore “inanimate”, dissecate dai sensi possibili, prive di “DNA” sonoro, produzioni in cui si aboliscono le relazioni con il passato e nel quale si preannuncia una infertilità futura? Una musica creata dal nulla può fare riferimento alla struttura fisica del suono come fonte primaria ma se non evoca nessun tipo di relazione con il passato, rischia di annullare ogni aspetto “rituale”, nel senso che nessun rito, nessuna azione umana, alcun segno di un’attività umana sedimentata nel tempo si manifesta attraverso la musica. Trovare un equilibrio possibile tra l’atto del creare e del far evolvere il preesistente è l’esigenza della nostra epoca. Al contrario posizioni dogmatiche che mirano alla creazione di opere sonore come assiomi testimoniano una tendenza antiscientifica (per meglio dire non usano un metodo a carattere scientifico; la composizione non è in ogni caso contemplata tra le scienze ma aspira eventualmente ad usarne alcuni approcci metodologici). La musica radicale, che spesso mira alla ricerca di nuovi suoni e alla sperimentazione come pratica empirica indotta dalle scienze, non è sempre intesa in quanto ricerca attorno ad un’anomalia osservata nella realtà sonora. L’idea musicale è piuttosto da iscrivere nella sfera dell’estetica. L’idea sonora per quanto nuova e assiomatica può essere annessa ad un paradigma musicale esistente e attivo o connessa ai paradigmi musicali del passato? I compositori oggi sentono l’esigenza di lavorare all’interno di un paradigma musicale caratterizzato da una matrice disciplinare e dunque far parte di una comunità che usa alcuni assi normativi condivisi? Oppure la strategia di composizione è trasmessa e usata tramite sistemi esoterici piuttosto che a carattere scientifico?[5]
Stimmung (1968), di Stockhausen, composizione per sei voci, è un esempio di opera musicale che appare talmente rivoluzionaria e allo stesso tempo costituisce un’evocazione di elementi rituali universali che permettono un accesso all’opera ad un pubblico vastissimo. Infatti l’opera contiene in sé modelli sonori conformi alla nostra cognizione e a una rete normativa ampia e condivisa. Un esempio di approccio creativo di tipo radicale potrebbe essere l’opera di Luigi Nono Prometeo. Tragedia dell’ascolto (1981-1985), purificata da ogni sorta di relazione di tipo rituale, le uniche evocazioni sono quelle di una vocalità antica madrigalistica che riappare come scheletrica. Si tratta di un pensiero musicale estremamente radicale, oscuro e profondo che richiede all’ascoltatore un vero sforzo durante l’ascolto del suono. Prometeo, piuttosto che portatore di luce, diventa quasi Dioniso e l’ascoltatore vive una passione dionisiaca, una sorta di via crucis dell’ascolto. Si tratta di un atto creativo radicale che mette alla prova la nostra memoria e la nostra percezione. Il “culto” del suono secondo una scienza spettrale diventa culto mistico del suono.
Da questo irrisolto contrasto d’idee nella musica del XX secolo nascono oggi delle incomprensioni terminologiche. Alcuni termini si svuotano di senso, oppure, allo stesso tempo vogliono dire tutto. Come la parola “comporre”: qualsiasi entità sonora formale o informale può essere associata al comporre. In alcuni luoghi ha preso piede il termine “creazione” (per esempio in Francia: la création musicale). Malgrado “creare” sia un verbo forse più nobile di “comporre”, non descrive la stessa azione; creare il suono non è esattamente la stessa cosa di comporre i suoni. Com-porre, porre con, porre insieme (organicamente e ordinatamente), mettere in relazione, prevedere l’unione ma anche la disgregazione, unire e fondere ma anche mettere in contrasto i materiali sonori, ad ogni modo sia l’unione che la separazione sono relazioni forti.
Secondo Stockhausen sembra che comporre significhi immaginare l’opera completa, e non studiare le possibilità di avanzamento di una struttura musicale passo dopo passo variando e ponderando scelte locali. Ciò riguarda secondo lui il mondo dell’artigianato [Stockhausen 2016, 61]. Nella mente del compositore invece l’opera si manifesta sotto forma di apparizione che si cristallizza nella mente sia nei dettagli minimi che macroscopici. Trans (1971) per orchestra, fu sognato interamente dal compositore e scritto successivamente. Horatiu Radulescu quando evoca i suoi pezzi parla spesso di “concepimento” dell’opera. Ovvero l’opera sonora è stata concepita interamente nella mente del compositore per poi essere resa suono (e prima ancora scritta in partitura), anche molti anni dopo [Brizzi 1990]. Creare il suono variando implica una procedura meccanica e artigianale oppure si tratta di un atto d’invenzione e della strutturazione dell’idea musicale nascente? L’indagine è complessa e sembrerebbe più adatta a un’equipe di neuroscienziati che ad una di musicologi. Bisognerebbe monitorare l’attività cerebrale e poterne fare una rappresentazione di come noi inventiamo il suono nella mente. Ma vediamo ora come il principio di variazione può costituire un altro punto di partenza per il comporre creando, e come questo può assicurare una strategia evolutiva senza pregiudicare un approccio creativo.
II. Ricerca musicologica e composizione musicale: le strategie del ricercatore-compositore
Durante la mia ricerca musicale ho cercato di sviluppare delle metodologie ibride situate alla frontiera tra ricerca musicologica e compositiva. La nuova figura del ricercatore-compositore è diffusa in alcune realtà accademiche in mutazione come per esempio in Francia e Canada [Stévance e Lacasse 2013]. È in espansione anche un approccio musicologico che mira a mettere in luce la genesi delle composizioni musicali, ripercorrendo le fasi della formazione dell’idea e dell’opera musicale che spesso lo stesso compositore ha rimosso oppure ha difficoltà a ricostruire con esattezza [Donin 2010; Lebrave-Gresillon-Donin 2015].
Ho avvertito un interesse per le strategie compositive caratterizzate dai principi di variazione fin dai primi approcci alla composizione musicale. In seguito alcune influenze teoriche mi hanno persuaso che fosse importante approfondire questo soggetto di ricerca: la teoria di Oppo sulle unità di articolazione del linguaggio musicale e sulla ridondanza è stata la prima influenza importante [Oppo 1983]; il concetto di assioma, i sistemi logici e formali descritti nelle teorie di Hofstadter mi hanno dato dei punti di riferimento aiutandomi a formalizzare attraverso la ripetizione variata [Hofstadter 1985]; la teoria di analisi di Lai, specialmente la sua nozione di dérivabilité a partire da un modello, mi ha permesso di assimilare una metodologia di analisi molto flessibile che mi ha aiutato anche nel comporre [Lai 2002]; le lezioni universitarie di Stoianova sulla musica sinfonica mi hanno dato delle solide basi per gestire le ripetizioni a distanza temporale e più in generale la macro-forma [Stoianova 1996 e 2000]. Il mio pezzo Sonata (2013) per pianoforte, è stato l’esperienza creativa in cui ho riversato tutte queste conoscenze accumulate durante lo studio musicologico. Per questo motivo ho inserito un’auto-analisi del pezzo nella mia tesi di dottorato [Milia 2016].
Tale studio ibrido tra composizione e musicologia non ha come scopo finale la teorizzazione. Certamente la descrizione che io faccio delle mie esperienze e dei miei studi condivisi tra le due discipline possono far credere al lettore che il mio obiettivo sia essere un teorico e in tal senso il mio lavoro potrebbe “infastidire” chi è un teorico per professione e che troverebbe la mia metodologia troppo “azzardata”. Nel mio tentativo di abbordare la disciplina musicale la parte creativa prevale e non mi permette di concentrarmi esclusivamente sulla pura teoria. Vi è certamente una permeabilità tra il mio modo di fare ricerca musicologica e quello di avanzare nella creazione musicale definendo dei principi e delimitando le strategie.
La mia ricerca di dottorato intitolata Variations et variantes dans l’oralité et dans la création musicale expérimentale. Le langage musical de Franco Oppo, Horatiu Radulescu et Alessandro Milia [Idem.] si fonda sullo studio della musica di Oppo e Radulescu due compositori che hanno fatto un uso molto specifico dei principi di trasformazione del suono. In particolare, i due compositori, hanno usato principi e strategie provenienti dall’oralità (della Sardegna e della Romania). Ho cercato dunque di fondere in modo coerente e utile le due discipline cercando di mettere in luce le potenzialità che la ricerca musicologica può offrire al compositore liberandolo e emancipandolo, e aprendo, allo stesso tempo, nuove prospettive per la musicologia. Lo scopo è uscire dallo schema classico e precostituito della trasmissione del sapere compositivo che spesso è gestita con dinamiche esoteriche piuttosto che razionali e scientifiche. Lo studio sui principi di variazione è dunque il filo che mi permette di tenere insieme le mie ricerche in composizione, musicologia, analisi ed etnomusicologia, sfiorando molti altri domini complementari come l’antropologia, l’epistemologia, la genetica musicale, la cognizione del suono, la trasmissione del sapere musicale e le strategie di auto-analisi per il compositore. Ciò che espongo in queste pagine non è una teoria ma una strategia di lavoro, un’esperienza di studio parziale, non esaustiva e anche, in un certo senso, soggettiva perché legata ad un particolare punto di osservazione del problema compositivo e musicologico. Le fasi della mia ricerca hanno previsto contatti diretti con musicologi (in particolare Ivanka Stoianova, Eero Tarasti e Antonio Lai) ma anche con compositori i cui stili sono caratterizzati da estetiche molto diverse (posso citare tra coloro con cui ho realmente lavorato e di cui ho potuto analizzare da vicino il pensiero: Franco Oppo, José Manuel Lopez-Lopez, André Bon, Salvatore Sciarrino, Stefano Gervasoni, Francesco Filidei e Pieluigi Billone).
Nelle prossime pagine osserveremo diverse strategie di variazione: come macro-architettura, come principio per variare ad un livello microscopico oppure più in generale come principio di gestione ciclica. Il rischio è di evocare e affiancare delle esperienze musicali molto diverse, tuttavia il mio scopo è di osservare gli usi più comuni ma anche quelli più anomali di tale approccio compositivo. Molti dei principi evocati nell’articolo sono particolarmente complessi e sono qui trattati in modo parziale, alcuni potranno in seguito essere studiati più profondamente. Il mio obbiettivo principale è attivare dei possibili percorsi creativi e creare dei ponti tra strategie compositive del passato e quelle del presente.
III. Principi tradizionali di variazione e variazioni di luce
Le terme [variations] recouvre, d’une part, le principe compositionnel de transformation d’un matériau sonore et, d’autre part, un certain nombre de formes musicales fondées sur ce principe et constituées d’habitude d’un (ou deux) thème(s) et d’une série de modifications de ce (ou ces) thèmes(s) appelées variations [Stoianova 2000, 23][6].
Il principio costruttivo primordiale sul quale riposa il ciclo di variazioni può essere descritto in maniera essenziale come una serie di trasformazioni del materiale sonoro preesistente. Questa generale nozione, che riguarda un aspetto architettonico delle opere, può riferirsi alla musica del passato ma può ugualmente adattarsi alla musica del nostro tempo. Sono persuaso che specialmente la forma delle variazioni detta “libera”, sia un’architettura il cui uso è stato possibile anche nel XX secolo, proprio grazie alla sua flessibilità d’adattamento a molteplici sistemi di composizione. A differenza della forma sonata, la forma delle variazioni offre al compositore una grande libertà di rielaborazione delle sue idee. L’aspetto più interessante che distingue il ciclo delle variazioni da altre forme del passato è la possibilità di edificare l’opera musicale attraverso un’ampia emancipazione rispetto al piano tonale del tema. Il compositore può agire su tutti gli altri parametri del suono rendendoli strutturanti. Le variazioni libere «utilisent certains éléments du thème et développent librement le contenu mélodique, métrorythmique et harmonique, ainsi que la structure formelle de celui-ci» [ibid. 28].
Nella forma del ciclo delle variazioni convergono i principi di variazione che agiscono al livello locale microscopico e il principio organizzativo globale del ciclo utile a creare delle relazioni a distanza temporale tra le parti dell’opera. La ciclicità in musica assicura la ridondanza del “senso” musicale nella forma globale di un pezzo e anche tra diversi stili di diverse epoche. Gli stili compositivi che si sono sviluppati a partire dal XX secolo, sono abbordati spesso come linguaggi in discontinuità con la tradizione classica e romantica. Bisognerebbe inserirli in un processo evolutivo ininterrotto e considerarli come l’amplificazione oppure la sintesi estrema, o ancora il rovesciamento e la radicalizzazione di alcuni principi già presenti nella musica del passato. Questa valutazione equivoca dell’evoluzione dei linguaggi musicali che progrediscono per tagli e fratture è dovuta alla difficoltà di isolare gli elementi comuni ai diversi stili delle diverse epoche che fondano la base del pensiero musicale occidentale.
I principi compositivi di organizzazione ciclica e di ri-esposizione periodica delle componenti formali dell’opera si sono sviluppate lentamente attraverso le forme del ciclo delle variazioni, del rondò, della sonata e grazie all’evoluzione del sinfonismo (inteso come insieme di principi formali ed estetici). Tali principi di variazione e condotta ciclica, sono presenti anche (o meglio soprattutto) nelle musiche di tradizione orale europea prima ancora che queste si cristallizzassero nella musica d’arte all’epoca pre-tonale e poi tonale. Le pratiche della tradizione musicale orale di danza e canto, le forme polifoniche del Medioevo e del Rinascimento, le danze strumentali che precedono la forma della suite «témoignent du fait que les procédés de variation étaient connus et largement utilisés dans diverses pratiques musicales avant leur cristallisation en tant que structure formelle dans la musique instrumentale classique» [ibid. 23-24]. D’altronde, «la variation comme principe compositionnel peut être présente dans toutes les formes de la tradition classique et romantique» [ibid. 23-24].
Il principio di variazione costituisce una sorta d’ossatura del pensiero musicale occidentale, un sistema primordiale di costruzione dell’opera che mira a fondare delle relazioni a distanza tra le componenti formali dell’opera e le loro trasformazioni nel corso del tempo. La ripresa e la ri-esposizione a distanza (che sia dinamizzata oppure reiterata senza modifiche) è probabilmente dovuta all’esigenza di costruire un percorso “narrativo” all’interno dell’opera, un percorso intelligibile nel tempo dell’audizione grazie alla strutturazione d’una memoria delle componenti del discorso musicale. I processi compositivi ciclici hanno un’importanza primordiale nelle fasi di cognizione del pezzo poiché, durante l’ascolto, ci agevolano nel riconoscere e conservare gli enunciati musicali nella nostra mente[7].
Se prendiamo in esame musiche di tipo seriale, osserviamo che le serie sono esposte secondo cicli periodici e il principio di variazione assume in questo contesto un senso radicale. Infatti è l’unico principio applicato, considerando che è impossibile reiterare un elemento. Tutte le componenti del tessuto sonoro vengono variate e mai ri-esposte se non mascherate e eventualmente solo dopo aver sfruttato il ciclo completo della serie.
Nei primi decenni del XX secolo è possibile rintracciare un’esplorazione del timbro come parametro strutturante. La metafora luminosa e la variazione cromatica del colore sono rappresentazioni del timbro che hanno caratterizzato i paradigmi compositivi dell’epoca e tale profonda ricerca scientifica ed estetica ha impegnato tutti i compositori. Il Bolero (1928) di Maurice Ravel per orchestra, è un esempio di ciclo di varianti basate sulla sola trasformazione timbrica dovuta ad una tecnica di orchestrazione. Allo stesso modo Farben per orchestra di Arnold Schönberg, terzo dei Fünf orchesterstücke op. 16 (composto nel 1914), mira ad una strutturazione dell’opera secondo il colore del suono. L’intera op. 16 è un ciclo di interventi a distanza, si iscrive in un’organizzazione globale di natura tradizionale secondo movimenti chiusi distinguibili attraverso dei materiali e delle caratteristiche connesse a distanza (il I con il IV Sehr rasch; il II con il III Mässige viertel; mentre il V Bewegte achtel è un movimento indipendente). Alexander Skrjabin usa la metafora della variazione di luce e di colore per rappresentare la “variazione-movimento” del timbro musicale. Citiamo tra i suoi pezzi: Vers la flamme (1914) per pianoforte, Le Poème de l’extase (1904-1907) per orchestra e Prométhée. Le poème du feu (1908-1910) per orchestra. La metafora della variazione di luce è stata impiegata in modo diffuso dai compositori vicini al paradigma spettrale e in particolare da Giacinto Scelsi, Olivier Messiaen, Horatiu Radulescu, Tristan Murail, Hugues Dufourt, Gérard Grisey e Salvatore Sciarrino. Radulescu, padre dello spettralismo è uno dei più importanti compositori della seconda metà del secolo per l’invenzione di nuove possibilità d’uso della forma “timbro”. Ha avuto anche il merito di sorpassare le invenzioni spettrali e negli anni 1990 effettuare una sintesi tra strategie spettrali e aspetti provenienti dalla tradizione e dall’oralità rumena. Evochiamo a titolo esemplificativo la sua sesta sonata per pianoforte, ultima opera scritta prima della sua scomparsa, nel cui titolo affiora proprio la metafora della luce, l’op. 110 Return to the Source of Light (2007) [Milia 2013]. Stockhausen invece impiega in maniera radicale la metafora luminosa, un aspetto caratterizzante la sua intera produzione specialmente nel suo ciclo Licht (1977-2003) [Stoianova 2014, 133]. Il filosofo e musicologo Eero Tarasti evoca importanti principi della musica antica e recente parlando della sinestesia in musica, ovvero la percezione del colore in relazione al timbro musicale [Tarasti 2006, 269]. Questo tema ha interessato numerosi scienziati, specialmente neurologi come Oliver Sacks [Sacks 2008]. Numerosi compositori hanno parlato del movimento del colore timbro. Pensiamo all’articolo di Salvatore Sciarrino Il colore del suono [Sciarrino 2013, 41-46]. Oppure al testo di Hugues Dufourt La problématique contemporaine du timbre: les caractéristiques d’ordre dynamique [Dufourt 2014, 327]. Nello stile degli anni 1950 e 1960 di György Ligeti rintracciamo alcuni principi primordiali dello spettralismo, dell’armonia-timbro e della variazione di “colore” sonoro. Secondo tale concezione la forma è un processo perpetuo di variazione della materia vibrante:
En ce qui concerne la grande forme, Lontano (lointain, éloigné) est apparenté à Atmosphères; les deux œuvres appartiennent au même type continu. La technique harmonique et polyphonique renvoie en partie au “Lacrimosa” du Requiem et à Lux aeterna; cependant, les problématiques compositionnelles et leurs solutions sont ici tout autres: la qualité de timbre devient qualité de l’harmonie, les transformations harmonico-polyphoniques revêtent l’apparence de transformation de couleurs sonores [Ligeti 2013, 242].
Dans Atmosphères, j’ai cherché à me libérer de la pensée compositionnelle “structurelle” qui prenait la relève du thermalisme motivique, et à réaliser ainsi une nouvelle idée de la forme. Dans cette forme musicale il n’y a aucun événement, uniquement des états, aucun contour ni aucune figure, mais seulement l’espace musical imaginaire inhabité et les timbres, véritables supports de la forme détachés de toute figuration musicale et devenant des valeurs en soit [ibid. 178].
On pourrait donc parler d’une “couleur de mouvement” car le timbre a une composante rythmique, ou plus exactement micro-rythmique. En perdant sa fonction d’élément musical autonome, le rythme s’identifie presque totalement au timbre [ibid. 181].
Tra le tecniche compositive antiche (la variazione melodica, metro-ritmica, armonica, contrappuntistica e su cantus firmus), la variazione libera e la variazione dei parametri sembrano essere le più efficaci per un uso nell’epoca post-tonale. La variazione dei parametri particolarmente diffusa nella musica seriale e post-seriale «repose sur la modification de la série en ce qui concerne ses hauteurs, durées, intensités, timbres, modes d’articulation ecc. Elle exprime la liberté de traitement du matériau de base, malgré la rigidité du système de composition» [Stoianova 2000, 13]. Come studieremo più avanti il principio di variazione è particolarmente presente nel pensiero di Arnold Schönberg. In seguito, compositori degli anni 1950 hanno fondato le loro opere sulla ciclicità andando in direzione di una apertura importante dello schema architettonico e verso l’apertura del processo compositivo. Possiamo iscrivere in questo contesto opere come la Troisième Sonate pour piano (1955-1957) di Pierre Boulez, Zyklus (1959) per un percussionista e Kavierstuck IX (1954-1961) di Stockhausen. Questo processo di apertura della forma, cioè la combinazione libera delle parti dell’architettura così come la permutazione delle funzioni formali, sono legate all’improvvisazione e si trovano anche alla base di strategie costruttive e di alcune pratiche della tradizione orale come i sistemi tradizionali di composizione-improvvisazione delle nodas (in lingua sarda, note in italiano), modelli metro-ritmici e melodici sfruttati in Sardegna dai suonatori di launeddas [Milia 2016, 323-334]. È forse possibile considerare questo tentativo di apertura del metodo compositivo come il punto culminante di una tendenza che, a partire dal romanticismo, mirava a rendere l’opera musicale e lo stile sempre più “individualizzati”. I compositori dell’epoca romantica tendono a una più libera elaborazione della materia sonora rispetto alle regole. A questo fine essi usarono forme come il ciclo delle variazioni libere (forma particolarmente sperimentale e aperta), e modificarono radicalmente le regole del sinfonismo. Durante il XX secolo, l’opera musicale deve rappresentare caratteristiche d’unicità, dei principi di costruzione assiomatici in rapporto alle altre opere musicali anche nello stile dello stesso autore. Per essere considerata tale ogni composizione deve introdurre delle “invenzioni” e “scoperte” estetiche, e nella seconda metà del secolo scorso l’opera deve contenere anche delle innovazioni tecnologiche o deve usarle. L’ideologia del compositore diventa in questo cotesto più importante del fatto di appartenere o no ad un universo definito, riferendosi ad un paradigma comunitario e condiviso da gruppi di musicisti. La raccolta di testi Fixer la liberté ? di Wolfgang Rihm riporta il tentativo d’inventare una forma musicale totalmente libera [Rihm 2013].
Ritornando alla ciclicità delle componenti formali, questa particolarità del linguaggio musicale è presente in tutte le epoche ed è sopravvissuta alle differenti fasi di apertura della pratica compositiva. La ciclicità e il principio di variazione restano dei fattori essenziali in musica favorendo la comunicazione di sistemi compositivi elaborati in circostanze ed epoche diverse. La nozione di dérivabilité elaborata da Antonio Lai in Genèse et révolution des langages musicaux, a mio avviso, risulta particolarmente utile per cercare di comprendere il proliferare di derivazioni che nascono in relazione ad un modello [Lai 2002]. Anche Per una teoria generale sul linguaggio musicale, approccio elaborato da Franco Oppo nel 1975 ha assunto per me un’importante funzione durante lo studio della problematica del creare variando, infatti nella teoria di Oppo la ridondanza e la micro-variazione costituiscono le due nozioni di base per poter comporre musica [Oppo 1983]. Infine, la mia esperienza diretta con due compositori – Franco Oppo e Salvatore Sciarrino – ha favorito il mio interesse per lo studio del comporre attraverso una strategia che mira a mettere in relazione i suoni in un processo di sintassi e non ad accorparli senza generare o amplificare relazioni; lo studio dell’equilibrio tra ridondanza e variazione è dunque stato fondamentale per la mia esperienza di ricercatore compositore.
IV. Cognizione e memoria: esposizione e ri-esposizioni variate
Analizzando un frammento del testo di Ivanka Stoianova, cerchiamo ora di comprendere la natura della variazione considerata come principio compositivo e non come architettura.
Le principe de variation est un des procédés essentiels en musique, allant de la répétition avec de légers changements à la dérivation productrice de nouveau. En tant que modalité de travail compositionnel, la variation comprend plusieurs techniques qui transforment la mélodie, le rythme, l’articulation, l’harmonie, le timbre, l’intensité, le dispositif vocal ou instrumental, ecc. La modification de tous ces aspects n’est jamais simultanée. Elle permet l’enrichissement et l’approfondissement des qualités expressives du matériau thématique de base et, à travers l’ampleur et la diversité de ses changements, assure l’unité de l’énoncé musical dans sa globalité [Stoianova 2000, 23].
Le tecniche di variazione ci permettono di accedere ad un equilibrio tra gli elementi dell’opera esposti inizialmente e le loro “ri-esposizioni” variate. Questo assicura una progressione e omogeneità dell’elaborazione e una dialettica tra gli aspetti del discorso musicale già assimilati dall’uditore (le unità generatrici) e gli aspetti nuovi (derivati dai modelli primari). Possiamo anche dire che un legame genetico esiste tra un elemento sonoro e la sua o le sue varianti. Per questo motivo il principio di variazione è un modo per esplorare efficacemente il materiale sonoro durante l’ascolto.
«La variation d’une formule sonore est sans doute un des principes les plus anciens en musique» [Idem.]. Le tecniche di variazione prima trasmesse oralmente e più tardi usate regolarmente dai compositori di musica di tradizione scritta antica, si sono poi cristallizzate nella forma del ciclo delle variazioni all’epoca della tonalità. Possiamo forse considerare questa forma come la somma di pratiche di variazione precedenti filtrate e condensate [ibid. 13]. Possiamo supporre che la forma del ciclo delle variazioni abbia conosciuto un processo evolutivo contrario alla cristallizzazione aprendosi nel XX secolo ad altre strategie compositive, come la variazione timbrica, al fine di adattarsi alle nuove estetiche. Non bisognerebbe allora valutare le epoche di cambiamento di paradigma compositivo come momenti di totale negazione e abrogazione del pensiero compositivo e teorico del passato. Il principio di variazione è una costante nella storia del linguaggio musicale poiché questa tecnica si fonda su alcuni principi naturali del funzionamento dell’intelligenza umana. La nostra natura ci porta a mettere in relazione degli elementi distanti per associarli in categorie. Si tratta di un principio di “economia” e di preservazione delle informazioni. Le variazioni (macroscopiche globali) e le varianti (microscopiche locali) facilitano la cognizione degli aspetti primordiali del testo sonoro e dell’idea musicale permettendo anche la memorizzazione e la sedimentazione della musica nel nostro “spirito” durante l’audizione e di ricordarla lungamente durante l’esistenza. Attraverso una molteplicità di strategie la variazione produce una struttura sonora che si tramuta in struttura logica nella mente di chi la percepisce. Tale problema – il passaggio da una situazione di assenza di struttura ad un’altra in cui la struttura è nascente – ha caratterizzato il secolo scorso.
La musica si sviluppa nello spazio e nel tempo, per questo motivo senza una sedimentazione delle strutture sonore nella nostra memoria non possiamo percepire la globalità dell’opera musicale. Le numerose manifestazioni e “epifanie” dell’unità sonora[8] generatrice attraverso le variazioni e le varianti permettono di ottenere una musica dinamica e intelligibile dove l’idea musicale primordiale sarà sempre rinnovata[9].
La mutazione di un’unità primordiale per mezzo di una moltitudine di forme è ugualmente un archetipo culturale. Pensiamo alle infinite epifanie delle divinità nelle religioni oppure nelle pratiche rituali come il culto di Dioniso; questa divinità può manifestarsi attraverso una miriade di figure umane o animali, reali o simboliche. Nella stessa maniera, nella narrazione di tradizione orale, i miti ancestrali possono assumere numerose varianti secondo le epoche e nelle diverse regioni del pianeta. Lo stesso mito può essere adattato a contesti culturali diversi.
V. La variazione come architettura aperta
In quanto sistema architettonico di organizzazione dell’opera musicale il ciclo di variazioni può costituire un pezzo indipendente o essere usato all’interno di forme cristallizzate più ampie come la forma sonata, il concerto o la sinfonia cosi come in forme musicali aperte del XX secolo. «Le cycle de variations ou les variations tout court sont une forme musicale constituée de l’exposition d’un thème et de ses répétitions différentes, appelées variations, selon le schéma A A1 A2 A3 A4, ecc.» [Stoianova 2000, 25]. La caratteristica più importante di questo schema è la sua flessibilità nell’interpolazione delle parti formali. Teoricamente è possibile combinare le sue componenti formali in maniera libera e senza mettere in pericolo la coerenza globale del pezzo: A (prima esposizione del materiale generatore), A2, A4, A1, A7, An, e così componendo (variazioni o derivazioni di A in un ordine libero).
La forma delle variazioni offre la possibilità di trasformare la materia sonora in origine elementare, secondo un gran numero di tecniche e principi di elaborazione. Questa ricchezza di strategie non impedisce la conservazione delle caratteristiche qualitative dell’idea di base che restano percepibili durante tutto il processo di trasformazione.
Le thème, très souvent connu, peut provenir de la pratique musicale populaire […] être emprunté à une autre œuvre […] et à un autre compositeur […] ou être écrit par l’auteur des variation lui-même. […] Dans tous les cas, le thème est plutôt simple quant à ses mélodie, harmonie et structure, rythmiquement modéré, facilement mémorisable. Ce qui permet théoriquement, d’une part, toutes les modalités de variation par la suite et, d’autre part, une écoute orientée par l’art de la séduction auditive [ibid. 26].
Nella tradizione classica e romantica le variazioni sono fondate su delle componenti tematiche elementari, in altre parole solo alcuni aspetti strutturali primordiali emergono nel tema come degli scheletri o al contrario degli embrioni. Per questa ragione le variazioni all’interno di un ampio ciclo possono essere associate per mezzo di elementi di base estremamente semplici.
Un esempio significativo e allo stesso tempo anomalo è rappresentato dalle 15 Variationen (mit Fuge) op. 35 di Ludwig van Beethoven per pianoforte su un tema originale in mib maggiore (dette Variazioni dall’Eroica). Il primo frammento che possiamo ascoltare sembrerebbe il tema ma è in realtà un’Introduzione col basso del tema. Beethoven ha immediatamente semplificato il tema, già decisamente spoglio, utilizzando solo il basso che possiede caratteristiche forti e marcanti. Il basso nell’Introduzione col basso del tema, si presenta raddoppiato su tre “voci” alle ottave superiori. È costituito da movimenti di quinte e di ottave che danno un carattere elementare. La natura di questa materia di cui si lasciano filtrare solo dei “campioni”, appare più tardi dopo l’ascolto del tema completo. Questo frammento è un’ossatura particolarmente filtrata dagli elementi accessori. Il basso è esposto tre volte, aggiungendo una voce ogni volta (a due, a tre e a quattro). Il tema appare solo dopo, seguito dalle variazioni e dalla fuga finale. L’op. 35 è un ciclo di variazioni strette, il basso è quasi sempre usato nella voce inferiore e conserva le sue caratteristiche come un basso ostinato, ma lo ritroviamo alcune volte alla voce superiore. Questo esempio può farci avvicinare alla logica della forma delle variazioni su un tema e lascia intravedere il ruolo strategico del tema nella forma del ciclo. Beethoven inizia dalle caratteristiche strutturali primordiali del tema. Tutti gli interessi estetici così come l’esplorazione delle espressività riposano sulle variazioni del modello (il tema) che inizialmente non presenta aspetti rilevanti dal punto di vista estetico tranne il suo carattere e potenziale di seduzione.
Nella stessa prospettiva è possibile ricordare che una delle componenti tematiche sulla quale è basato il ciclo Sinfonische Etüden op. 13 per pianoforte di Robert Schumann, è l’arpeggio discendente di un accordo di tonica nella tonalità di do minore. Questo elemento primigenio, costituisce un modello di ossatura per le variazioni. L’op. 13 è un ciclo di variazioni libere. La libertà di questa forma riposa nell’opportunità di costruire una materia musicale originale su un’ossatura elementare del tema che è un “gesto strumentale” o una “figura” sonora. In tal caso il materiale di ogni variazione non sembra tanto il tema originale ma piuttosto ogni volta si rinnova con nuovo materiale che viene integrato alle componenti formali scarne del tema.
Il termine “tema” è sovente usato per indicare esclusivamente l’aspetto lineare, ossia la sequenza delle altezze, senza considerare le caratteristiche armoniche, metriche, ritmiche, così come quelle relative al timbro e all’orchestrazione di un frammento sonoro; ridurre il tema alla dimensione lineare è una semplificazione. Anche nell’epoca classica e romantica il tema si deve considerare come un insieme di caratteristiche allo stesso tempo espressive e strutturali e forse anche legate alla sfera sensoriale, e non solo come una melodia. L’impianto tonale del tema, la morfologia armonica, il modo originale, la metrica, la durata temporale delle articolazioni e del frammento globale, i registri impiegati, l’orchestrazione (nel caso di una musica per più fonti sonore), il carattere, così come altri parametri si rivelano essere strutturali per le variazioni. Allo stesso modo, ridurre il tema a uno schema architettonico chiuso e statico è un’interpretazione sbagliata poiché il tema è un condensato di aspetti espressivi e strutturali, che rappresentano l’idea musicale; di conseguenza, il tema non può essere rinchiuso in uno schema fisso, in un’architettura temporale, metrica e ritmica stabilita a priori. L’idea musicale, resa esplicita nel tema, non può avere delle “dimensioni” precostituite.
Il ciclo di variazioni è una forma che, dalle sue origini, sembra particolarmente adatta e orientata alla trasformazione della morfologia della materia sonora e alla mutazione della sua articolazione. In altre forme dell’epoca classica e romantica come la sonata, o più in generale nella logica del sinfonismo inteso come insieme di principi, una gran parte dell’elaborazione riposa sulla modulazione a partire da un centro tonale. Questo significa che l’aspetto che si rivela il più strutturante per l’opera musicale è il piano armonico globale. Nelle variazioni, dove lo “spazio” e il tempo di elaborazione è molto ridotto poiché ogni variazione del ciclo è una parte formale chiusa, lo sviluppo modulante è più modesto rispetto alla forma sonata e di conseguenza l’impianto armonico è meno strutturante. La variazione normalmente non si allontana troppo dalla tonalità e dallo schema formale del tema che generalmente è semplice. Per questa ragione l’elaborazione e l’organizzazione delle variazioni nel ciclo si fondano principalmente sulle caratteristiche morfologiche del materiale scelto. Se il carattere di una variazione è marcato da una scrittura imitativa, tale aspetto apparirà durante tutto il frammento. La morfologia della materia sonora così come la sua articolazione, costituiscono un elemento dominante che prevale su altre componenti strutturali come la modulazione armonica e il contrasto formatore tipico della forma sonata e dello stile sinfonico. Possiamo supporre che la forma del ciclo delle variazioni possa adattarsi alle esigenze dei compositori operanti dopo il paradigma tonale. Considerando che la morfologia del materiale ha molta importanza nella strutturazione, durante l’elaborazione e nell’identificazione delle parti formali dell’opera sonora, è allora possibile pensare di escludere il piano tonale e sembra plausibile ponderare l’organizzazione del pezzo in funzione di altri elementi, fino a considerare la forma come una manifestazione della sola materia acustica e delle sue trasformazioni [Ligeti 2013, 178]. Per meglio dire, la morfologia e l’articolazione del suono determinano la struttura dell’opera e la direzione dell’elaborazione.
Le diverse tipologie della forma del ciclo di variazioni permettono la flessibilità temporale dell’opera. Uno stesso materiale sonoro può generare qualche variazione oppure moltissime.
Le nombre de variations est très libre : de 2-3 à 30-32 voire plus. Cette liberté reflète la tendance à une ouverture de l’œuvre dans le temps, caractéristique au départ des pratiques musicales populaires. Les dénominations “Thème et variations”, “Variations sur un thème de …” recouvrent le même type de forme cyclique (c’est-à-dire constituée de plusieurs composantes formelles), fondée sur la modification (c’est-à-dire la variation en tant que principe de travail compositionnel) d’un matériau thématique de base [Stoianova 2000, 26].
Questo passaggio mette in evidenza (1) le caratteristiche principali di questa forma, ovvero la ciclicità, l’apertura temporale e la libertà di elaborazione; (2) la provenienza della forma del ciclo da pratiche della tradizione musicale orale; (3) Stoianova mette anche in evidenza che attraverso il termine “variazione” indichiamo una forma ciclica fondata sulla modificazione e non sulla ripetizione invariata.
L’apertura temporale della forma è tipica di numerose pratiche della tradizione musicale orale. Questo è il caso delle anninnias tradizionali della Sardegna (berceuses, ninnananne). Si tratta di canti monodici spontanei interpretati normalmente dalle donne e costruiti a partire da corti frammenti reiterati più volte. Ad ogni ripetizione sono effettuate piccole variati; il numero delle ripetizioni variate del frammento originale è indeterminato. Per questa ragione la forma delle anninnias è una forma aperta dal punto di vista temporale. Questo aspetto dipende dalla libera scelta della cantante che interpreta l’anninnia e dalle circostanze. Le forme di danza per le launeddas seguono la stessa logica delle forme di anninnia. Questa strategia di lavoro basata sulle variazioni è presa in prestito dal compositore Franco Oppo (1935-2016) e si trova alla base del suo stile compositivo osservabile in Tre berceuses (1980-81) per pianoforte, Gallurese (1989) e Baroniese (1993) due danze per pianoforte a quattro mani, così come in Anninnias (1978 e 1982) per ensemble. Lo studio della struttura delle forme dell’oralità della Sardegna ci può far scoprire come la ciclicità sia l’elemento primordiale delle forme arcaiche e ancestrali. L’analisi dello stile di Oppo e di alcuni dei suoi lavori può fornire un esempio d’impiego delle risorse provenienti da pratiche musicali dell’oralità integrate a un sistema logico cibernetico [Milia 2008-2009; 2009-2010; 2011; 2016]. Il compositore rumeno Horatiu Radulescu (1942-2008) elabora delle forme aperte comparabili a quelle di Oppo, attraverso l’osservazione delle forme della tradizione musicale orale della Romania (specialmente della Transilvania) e impiega musiche ancestrali della tradizione bizantina. Entrambi i compositori fanno appello a tecniche del comporre per varianti microscopiche derivate certamente dalle forme millenarie dell’oralità [Milia 2016, 169-204; 2013].
Durante la prima parte del XX secolo si registrano numerosi usi delle variazioni. Spesso sono recuperate strategie antiche pre-tonali; è il caso dei sistemi di variazione su basso ostinato o su soprano ostinato. Quelle su basso ostinato sono di natura polifonica, dunque meno usate all’epoca tonale. Esse sono osservabili frequentemente nelle danze strumentali del XVII secolo come la passacaglia e la ciaccona. Mentre le variazioni su soprano ostinato sono basate su una melodia stabile di cui modifichiamo la materia sottostante. Questo tipo di variazioni è caratteristico di alcune pratiche di canto di tradizione orale ed è stato alla base della forma del Lied e del corale. Tale strategia rappresenta anche uno dei principi primordiali del classicismo dove la dimensione melodica è un aspetto fondatore. Il Bolero di Maurice Ravel è un pezzo costruito a partire dal principio di variazione su melodia ostinato. L’elaborazione riposa unicamente sulla trasformazione del “colore” dell’orchestra. Questa composizione di Ravel dimostra la possibilità di strutturare l’opera musicale attraverso la variazione del parametro timbro riducendo l’importanza di un impianto armonico formatore dinamizzato tramite la modulazione. In Bolero non c’è ne l’elaborazione lineare di tipo melodico ne quella di tipo armonico ma solamente una perpetua elaborazione per mezzo delle tecniche di orchestrazione dell’epoca. Un altro esempio di opera fondata sulla variazione del timbro e dei “colori” dell’orchestra, è il pezzo Quattro versioni originali della “Ritirata notturna di Madrid” di L. Boccherini sovrapposte e trascritte per orchestra (1975) di Luciano Berio, su un popolare tema di Luigi Boccherini. Nello stile di György Ligeti le strutture basate su ostinato sono usate correntemente e liberamente. Ligeti mira a costruire delle masse sonore attraverso la sovrapposizione di una moltitudine di melodie diverse e spesso per mezzo di ostinati. Citiamo i suoi pezzi: Requiem (1963-1965) per grande coro e grande orchestra, Lontano (1967) per grande orchestra, Lux aeterna (1966) per sedici voci miste e Krammerkonzert (1970) per tredici strumenti. Nel XX secolo si fa appello a delle pratiche di variazione più antiche come le forme su basso e soprano ostinato oppure a strutture prese in prestito dall’oralità. Questo fatto mette in evidenza la necessità di provocare una rottura con le strategie del romanticismo e di trovare delle nuove possibilità d’uso del principio di variazione. Ciononostante le forme sviluppate durante il periodo della tonalità riposano su principi che ritroviamo anche successivamente. Si tratta di principi di apertura temporale dell’opera e di tentativi di emancipazione del processo compositivo tipici dello stile sinfonico che ritroviamo nel nostro tempo sotto altre vesti.
Les classiques viennois ont introduit, surtout sous l’influence des techniques compositionnelles de la sonate et de la symphonie, des modalités de variation qui élargissent considérablement les possibilités de la forme. L’évolution de celle-ci à l’époque classique suit deux orientations opposées de symphonisation […] d’une part la tendance à une forme plus continue et cohérente, à une l’œuvre-totalité selon le modèle classique, et d’autre part, la tendance, typique du romantisme à la création de variations Charakterstucke, pièces à caractère individualisé […] cette dernière orientation caractéristique du classicisme tardif, qui recherche des formes-processus, c’est-à-dire des formes à développement téléologique continu, modifie également le schéma des variations strictes [Stoianova 2000, 44].
Questo testo ci invita a evocare due nozioni essenziali sulle quali i sistemi compositivi del XX secolo si fondano: la nozione di processo continuo di elaborazione e la nozione di opera individuale (individualizzata, soggettiva). La tendenza dei compositori del Novecento a concepire progetti compositivi “individualizzati” attraverso la descrizione di “immagini” della realtà per mezzo della materia sonora, ha delle profonde radici nella musica tonale. Allo stesso modo, l’apertura dello schema architettonico a profitto di un’elaborazione senza tagli formali o interruzioni del suono e del suo processo organico e direzionale, è la conseguenza dell’evoluzione di uno dei principi più importanti e radicali del sinfonismo: la continuità del suono. Questi fenomeni – il processo a sviluppo continuo e i pezzi a carattere soggettivo – possono essere osservati nella forma del ciclo delle variazioni libere e nelle forme del tipo Charakterstücke. Anche il principio della Durchkomponiert, per esempio nei cicli vocali di Franz Schubert, testimonia il tentativo di creare un tessuto sonoro costruito per arcate (in tal caso la dimensione formale è suggerita dal testo), che si legano senza interruzioni formali e dove ogni arcata formale produce qualcosa che ci conduce alla successiva favorendo così una evoluzione del “suono” sulla base di se stesso. Nel linguaggio musicale post-tonale il principio dell’opera musicale soggettiva individualizzante diventa radicale e diffuso. L’opera musicale si libera dal punto di vista estetico e stilistico dell’epoca, ma si libera anche dello stile globale del suo compositore. Ogni pezzo possiede un asse formale e normativo autonomo e può divenire una sorta di “assioma” con una matrice disciplinare propria.
Possiamo considerare le numerose strategie compositive post-tonali come dei tentativi radicali di mettere in pratica l’elaborazione continua del suono, l’eliminazione delle interruzioni e delle cesure del flusso sonoro e l’abolizione delle divisioni in parti formali, ciò unito anche all’apertura del processo compositivo verso ogni sorta di logica e di materia sonora. Osserviamo questi orientamenti – se pur manifestati in modi molto diversi e con risultati estetici eterogenei – nelle musiche seriali, nei pezzi basati su schemi mobili, nei processi di elaborazione di tipo timbrico e di natura spettrale, così come nei pezzi a sviluppo minimale e continuo.
Il processo di elaborazione compositiva continua e omogenea potrebbe fare appello all’idea della crescita di un organismo vivente, all’idea di mutazione della materia organica e richiama il percorso di trasformazione dei minerali nella natura e l’attività degli astri (Stockhausen usa la metafora della variazione di luce). La continuità temporale delle fasi di trasformazione della materia sonora è stata uno dei principi fondatori del paradigma spettrale (Radulescu impiega la forma spettrale stagnante oppure in divenire) [Milia 2016, 169-204]. Più in generale, la forma spettrale riposa sia su principi formali provenienti dalla tradizione orale (specialmente dalle forme di tipo timbrico), sia su elementi provenienti da logiche extra-musicali come le scienze naturali e in particolare la forma-processo si basa su l’osservazione dello spettro della luce (perciò si riferisce a modelli fisici). La metafora della variazione di luce e la variazione del colore è usata per descrivere le nuove articolazioni sonore nel XX secolo al fine di definire una forma di variazione del suono in cui l’aspetto dinamico è unicamente il timbro. All’inizio del secolo scorso, l’approccio compositivo di Claude Debussy – la cui teorizzazione è stata trascurata a favore della scuola di Vienna – fu all’epoca particolarmente sperimentale e si presenta come un continuo dinamico di suono basato sia sulle articolazioni in perpetua variazione che sul timbro in continua trasformazione[10]. In questo caso l’opera sonora non presenta più uno schema architettonico, ne è legata a un piano tonale, ma è un processo evolutivo, una sorta di sostanza acustica “liquida” o “gassosa” di cui è impossibile definire i contorni.
L’architettura delle variazioni può presentarsi in forma di pezzi chiusi, indipendenti e impiegabili secondo diverse combinazioni di ordine dei frammenti, ma essa può ugualmente essere usata come architettura unica ma flessibile dove la materia sonora subisce una trasformazione continua e graduale come la luce e la temperatura durante il trascorrere del giorno.
VI. Variazioni libere o libera variazione
Nel linguaggio musicale del nostro tempo il piano tonale e la funzione strutturante dell’armonia hanno un ruolo secondario nella costruzione dell’opera sonora. Le variazioni libere non sono obbligatoriamente in relazione con l’architettura armonica e l’impianto tonale del tema e tal forma può essere usata fuori dalla sfera della tonalità armonica. Tutti i parametri del suono possono essere elaborati e avere una funzione strutturante nel ciclo. In generale si può dire che tutte le forme cicliche sono state largamente usate nella prima parte del XX secolo. Pensiamo alle forme di danza e alle suite di danze nello stile di Igor Stravinsky, Béla Bartok, Arnold Schönberg e altri compositori[11]. Evochiamo ora un’importante definizione di variazioni libere elaborata da Stoianova, testo che potrà darci dei dettagli sull’evoluzione di tale forma:
Les variations libres ne conservent pas la structure formelle du thème, ni ses dimensions, tempo, mesure ou tonalité. Dans le cycle de variations libres, chaque variation peut obéir à un schéma différent de celui du thème et modifier à sa manière la mélodie, l’harmonie, le métrorythme, le tempo, la texture et les dimensions de ce dernier. Les particularités mélodiques, harmoniques et tonales, ainsi que celles du métrorythme et de la texture des variations ne sont pas nécessairement liées au thème. Elles peuvent n’utiliser que quelques éléments thématiques et les développer librement, au point que l’appartenance de la variation au thème se trouve estompée. Un certain nombre de variations libres à l’intérieur du cycle peuvent garder une relation explicite avec le thématisme de base. D’autres, au contraire, peuvent s’en éloigner considérablement, ou même perdre toute relation avec le thème. Le contenu harmonique des variations peut aussi être tout à fait différent de celui du thème [Stoianova 2000, 50].
Il tema iniziale può essere analizzato e decomposto, le sue componenti (una volta isolate) possono essere usate liberamente e in maniera indipendente. Attraverso il testo di Stoianova possiamo intravedere le possibilità d’uso all’interno di strategie del nostro tempo.
Le cycle de variations libres peut aussi renoncer aux coupures entre les variations et se transformer en pièce continue […]. Souvent les variations libres utilisant des éléments isolés du thème obéissent plutôt aux principes de développement qu’aux principes de variations. Les variations peuvent aussi s’émanciper complètement du thématisme principal en introduisant – par déduction ou par opposition – de nouveaux thèmes individualisés [ibid. 51].
La rinuncia a separare le variazioni in parti chiuse è un aspetto che possiamo osservare in molte opere del secolo scorso. È il caso di Variazioni su tema di Mozart (1991) per orchestra e il più recente Concerto n. 2 (2002) per piano e orchestra di Franco Oppo. In questi pezzi la continuità tra le variazioni ci fa percepire un’elaborazione perpetua, unitaria e direzionale, ci conduce in uno scenario sonoro astratto e ci fa perdere contatto con il tema iniziale che è pertanto costantemente evocato anche se mascherato.
Possiamo supporre che le variazioni libere abbiano avuto una funzione significativa durante la transizione tra il sistema compositivo tonale e i sistemi di composizione successivi. Nello stile classico e romantico «les variations libres mettent en évidence l’interaction entre les procédés des variations et ceux de la sonate, et, de ce fait, des aspects essentiels du symphonisme» [Stoianova 2000, 51-52]. I già evocati Sinfonische Etüden per pianoforte op. 13 di Robert Schumann costituiscono un ciclo di variazioni libere formato da 12 variazioni e 5 variazioni o studi postumi inseriti tra le variazioni sempre prima dell’ultima. «Ce fait confirme l’ouverture du cycle de variations en général: le nombre de variations est théoriquement illimité et l’ordre de leur succession peut, en l’occurrence, être modifié sans qu’il y ait atteinte à la cohérence musicale de l’œuvres» [ibid. 53].
L’apertura della forma teorizzata e messa in opera negli anni 1950 è spesso considerata come una scoperta rivoluzionaria. Tuttavia, se consideriamo l’evoluzione delle forme classiche e romantiche, l’evoluzione del sinfonismo come processo di ibridazione dei principi di variazione e quelli della sonata, possiamo osservare un lento processo che avanza verso l’emancipazione delle materia sonora pur conservando una coerenza nelle strategie di edificazione dell’opera musicale. Rintracciamo le origini di questa tendenza nell’oralità musicale (per esempio nella musica sarda e rumena). Ma, riferendoci alla musica savante, esperienze che vanno in direzione di un’apertura della strategia classica cristallizzata possono essere osservate in composizioni di Wolfgang Amadeus Mozart e di Ludwig van Beethoven (per esempio nelle Variazioni su “Salve tu, domine”, di G. Paisiello: I filosofi immaginari, KV 398 (416e) di Mozart e le Variazioni Diabelli di Beethoven) [ibid. 53].
Il potenziale di sviluppo formale della musica classica riposa sull’ibridazione di principi compositivi e schemi architettonici diversi. L’integrazione tra l’idea di processo continuo legato alla variazione e il contrasto formale, materiale e morfologico più prossimo al senso di sviluppo nella sonata, si trova all’origine delle scoperte artistiche dell’epoca. Potremmo considerare alcune strategie del XX secolo come “apogeo” in un processo sonoro che comprende più secoli. La dodecafonia, poi la musica seriale, esprimono la radicalizzazione e il rovesciamento del principio di variazione. Tutto è modificato e nulla può reiterarsi. La forma “aperta” e le forme mobili sono prossime delle pratiche improvvisative. A causa del loro carattere assai iconoclasta questi paradigmi musicali (la atonalità, la dodecafonia, la musica seriale, quella stocastica, la cibernetica e lo spettralismo), hanno estinto molto rapidamente il loro potenziale di sviluppo e di ibridazione delle loro componenti. In questo contesto possiamo anche interrogarci sul significato di “forma libera” nella nostra epoca; ossia una forma totalmente emancipata da uno schema e da una strategia prestabilita. Nel corso della seconda metà del XX secolo si assiste ad una separazione tra l’idea di libertà nell’applicare le strategie compositive e il principio di coerenza nell’impiegare i materiali sonori: nasce l’idea di una musica formale e una informale.
Le variazioni fanno tradizionalmente riferimento al tema, ossia, ogni variazione usa il tema come modello. Nella musica del Novecento troviamo invece un uso diverso e innovativo: negli stili che fanno uso dell’architettura delle variazioni o dei principi di variazione, il modello non è sempre il tema iniziale ma spesso è l’ultima variazione esposta. Perciò ogni variazione o variante dipende, è basata o è tratta dalla variazione che la precede. Questa particolarità aumenta considerevolmente le possibilità di composizione ed emancipa l’elaborazione. Grazie a tale strategia possiamo edificare le nuove parti del pezzo istante per istante. Ogni variante possiede delle caratteristiche genetiche nuove da trasmettere a una variante successiva. Si tratta di un principio legato all’idea di materia sonora in fase di mutazione e di processo compositivo “vettoriale”, biologico e organico. Lo stato della materia sonora in corso di svolgimento è dipendente dalla materia sonora esattamente precedente. Questo approccio è evidente nel paradigma spettrale e potrebbe anche ricordare alcuni principi della Momentform. Come evocato in precedenza, la strategia delle nodas sarde usata dai suonatori di launeddas si basa proprio su questo principio di variazione istante dopo istante, i suonatori più virtuosi fanno scaturire una variazione dalla precedente senza mai ritornare su una delle variazioni già esposte, e senza mai ri-suonare il modello; la metafora è quella del fiume che scorrendo verso la vallata non riporta mai nulla a monte.
VII. Qualche aspetto del principio di variazione nello stile di Arnold Schönberg
Nella produzione di Arnold Schönberg, possiamo ritrovare numerosi casi espliciti d’uso del principio di variazione e di forme cicliche in genere[12]. Schönberg usa la variazione come forma indipendente (Variationen für Orchester op. 31), o come movimento all’interno di architetture ampie a più sezioni (Thema mit Variationen, nella Suite für kleine Klarinette, Klarinette, Baßklarinette, Geige, Bratsche, Violoncello und Klavier op. 29). D’altronde, sovente nel suo stile altre forme cicliche come il rondò e le forme di danza sono presenti come componenti della suite o come movimenti indipendenti. Le opere evocate in nota, sono state composte tra il 1920 e il 1943 e il ciclo di variazioni appare spesso (op. 24, op. 26, op. 29, op. 30, op. 31, op. 37, op. 40, op. 43a e 43b). Certamente il linguaggio avanzato di Schönberg durante questo periodo era lontano dalle strategie della tonalità pertanto le forme cicliche sono decisamente presenti.
Per Schönberg la variazione riveste un ruolo centrale anche come principio di lavoro compositivo. La nozione di variazione in sviluppo è un metodo che consiste nel creare delle figure sonore “tematiche” a partire da una unità formale [Dahlhaus 1997, 270]. Questa tecnica si applica all’elaborazione delle componenti ad un livello microscopico del “testo” sonoro indipendentemente dalle architetture globali usate.
Dans le terme composite “variation développante” le mot “variation” désigne – dans des limites précises – une notion de technique compositionnelle. Par contre, le mot “développant”, qui selon Schönberg était synonyme de “croissance”, désigne une interprétation esthétique. […] Le fait qu’un second motif découle d’un premier, puis un troisième du second, ne signifie pas pour autant que le troisième motif ait encore des points communs avec le premier. Si la relation de dérivation est indéniable, il ne saurait toutefois être question d’une substance invariable; or, c’est bien ce que présuppose le concept de développement dans la mesure où il est pensé à l’image d’une croissance à partir d’un noyau initial [ibid. 273-274].
Dahlhaus osserva che il termine “crescita” è associato all’idea stessa di elaborazione dell’opera sonora. Ciò ci fa pensare alla trasformazione continua di un organismo. Il fatto che le componenti del discorso musicale possano scaturire da uno o più nuclei iniziali, dona coerenza e coesione alla materia sonora del pezzo. La proliferazione di numerose derivazioni delle particelle di base, anche quando esse si differenziano notevolmente dai modelli iniziali, produce una grande quantità di relazioni sonore aumentando di fatto l’intelligibilità della musica.
Le motif apparaît constamment tout au long de la pièce: il est répété. Seule, la répétition engendre la monotonie. Et la monotonie ne peut être vaincue que par la variation. […] Qui dit variation dit changement. Mais si on change tous les traits du motif, le résultat risque fort de paraître étrange, incohérent, illogique. On aura détruit la forme de base du motif. Par conséquent, la variation exige que l’on change certains des traits [du motif] les moins importants et que l’on préserve certains des plus importants [Schönberg 1987, 23].
Schönberg evoca la variazione come principio di modificazione delle idee musicali; parla in particolare della variazione “motivica”. In questo contesto la nozione di motivo non è precisamente esplicita; è intesa in un senso tradizionale ma non sembra descrivere le nuove idee di Schönberg che non ne definisce la natura, la dimensione temporale e l’aspetto morfologico. Capiamo bene che il motivo è un tratto caratteristico, un modello ritmico per esempio, un frammento melodico, oppure una particolarità acustica. Nella musica di Schönberg l’uso di tali frammenti variati e in evoluzione non è certamente da osservare in modo tradizionale ma costituisce un nuovo e rivoluzionario approccio alla costruzione dell’opera. I frammenti simili in mutazione assumono una temporalità che non è solo quella tradizionale classica e romantica. Bisogna certamente considerare lo scopo anche didattico della citazione appena presa in esame. In tale contesto la teorizzazione delle unità minime del linguaggio musicale è affrontata con un approccio tradizionale e resta in parte ambigua. Ciò che non viene definito e come riconoscere tali unità minime (per esempio il modello originale) e che “dimensione” dovrebbero avere. Tuttavia, Schönberg ci fa percepire il lavoro artigianale microscopico e locale necessario a produrre le trasformazioni possibili e coerenti del suono ossia a creare le derivazioni. Si potrebbe osservare che questo approccio derivi certamente da quello di Beethoven e di Brahms. Sembrerebbe che Schönberg evochi la biologia dell’evoluzione parlando di cambiare conservando. Oppure, quando sostiene che ci sono tratti del suono importanti che vanno preservati e altri meno evidenti che ad un certo momento scompaiono, parrebbe che il suo pensiero preannunci le teorie cibernetiche oppure le teorie dell’informazione che caratterizzeranno la ricerca nella seconda metà del Novecento.
VIII. Forme simmetriche, ripetitive e combinatorie: Rondò di Franco Oppo
Come il ciclo delle variazioni anche il rondò riposa su principi di organizzazione ciclica delle componenti formali. La similitudine con le variazioni è dovuta al simile percorso evolutivo delle due forme. Il rondò è presente in quanto forma nella tradizione orale musicale (nel canto e nella danza) e anche in quella poetica, si sviluppa poi durante il Medioevo e il periodo pre-classico nelle suite strumentali (per esempio presso i clavicembalisti francesi). Il rondò si cristallizza, analogamente alla variazione, nello stile classico dove è soprattutto impiegato come movimento indipendente nel ciclo della sonata. Ha subito, come la forma delle variazioni, un’ibridazione con le architetture e i principi della sonata, per evocare un celebre esempio citiamo il terzo movimento del Concerto K 622 per clarinetto e orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart, sotto forma di rondò-sonata, forma sperimentale molto diffusa all’epoca. Il percorso evolutivo del rondò incomincia con il suo uso nella musica di tradizione orale europea passando al suo impiego più complesso nel sinfonismo e approdando a nuovi impieghi nel nostro tempo. L’origine delle forme arcaiche di rondò – trasmesse oralmente e destinate al canto o alla danza – è la ragione del loro potenziale di evoluzione poiché esse non impiegano esclusivamente l’impianto tonale come unico elemento formatore. Nella musica ancestrale di tradizione orale, il timbro, il ritmo, la metrica, le strategie di variazione e di combinazione e altri aspetti sono tutti elementi essenziali.
È plausibile che le variazioni e il rondò, strettamente legati al pensiero musicale europeo di cui hanno marcato l’intero percorso evolutivo, siano sopravvissuti ai cambiamenti di numerosi approcci teorici e compositivi poiché l’organizzazione ciclica della forma permette al compositore una grande libertà di scelta. Facciamo ora qualche esempio di un particolare uso di forme simmetriche, ripetitive e combinatorie nella musica della seconda metà del Novecento. Franco Oppo ha composto un pezzo basato sul principio formale del rondò: Rondò (1975) per due strumenti ad arco a quattro corde, inizialmente intitolato Rondeau poi Rondò, specificatamente dedicato a due violinisti.
Ricordiamo che Oppo è uno specialista della scrittura ciclica, ha elaborato delle particolari strategie legate alla variazione e specialmente alla micro-variazione che proviene dalla musica di tradizione musicale orale sarda. Ha anche elaborato una teoria di analisi e composizione che essenzialmente regola il rapporto tra ridondanza e variazione [Oppo 1983]. La sua strategia di micro-variazione può essere osservata in particolare nelle già citate opere legate all’oralità come Anninnia (1978) per ensemble o in Gallurese (1989) e Baroniese (1993) entrambe per pianoforte a quattro mani [Milia 2011]. Sarebbe interessante studiare il suo approccio alla variazione, tuttavia in questo testo ci limitiamo a pochi esempi non esaustivi. La composizione Rondò è formata da tre sezioni distinte (A, B e C) che rappresentano tre materiali diversi. Oppo assume come modello la forma tradizionale del rondò considerando diverse varianti di tale schema formale generico. Egli indica sulla partitura cinque schemi formali che i due interpreti devono rispettare (osserviamo la fig. 1). I musicisti devono suonare il medesimo schema e poi passare al seguente. Possono pre-determinare l’ordine dei modelli formali. L’architettura globale dell’opera di Oppo, come possiamo intuire, è dunque determinata dalla permutazione dei cinque modelli formali esposti nella fig. 1.
Fig. 1, schemi formali di rondò presenti sulla partitura di Rondò (1975) di Franco Oppo.
- A B A1
- A B C A1
- A B A1 C A2
- A B A1 B1 C A2
- A B C A1 C1 B1 A2
Lo schema formale 1 (fig. 1) corrisponde allo schema tipico della forma tripartita dove tradizionalmente le sezioni formali hanno la funzione di esposizione (A) e di sviluppo (B). Oppure, come nel nostro caso, esse rappresentano degli episodi contrastanti (A, B e C) con la ri-esposizione a distanza (A1, A2, B1 e C1). Lo schema formale 3 (fig. 1) rappresenta quello del rondò a cinque parti tipico del classicismo viennese[13]. Se confrontato con lo schema 1, lo schema 2 varia solamente per l’introduzione della sezione formale C. Non possiamo rintracciare un tale schema negli schemi standardizzati del rondò, si tratta di varianti che si possono facilmente reperire nel repertorio. La successione di funzioni A B C A sembra simile al modello A B C B A dove è stata eliminata la seconda ripetizione di B. Oppo prende le sezioni B, C e C, B, e le permuta eliminando le simmetrie (schemi formali 2, 4 e 5 fig. 1).
I tre materiali sonori A, B e C sono esposti nella partitura attraverso una notazione grafica. Questa prescrive diversi effetti acustici e indica delle informazioni precise per realizzarli. Nella parte relativa al materiale A (es. 1) il compositore prescrive delle posizioni tradizionali della mano sulla tastiera del violino (posizione I, II, III, ecc.), delle dinamiche, dei tremoli e diverse combinazioni di altezze applicabili a varie tecniche di esecuzione violinistica. Il pezzo è ricco di combinazioni che implicano tutti i parametri del suono a tutti i livelli formali. Tali aspetti combinatori ne fanno dunque un’opera aperta. Gli schemi di rondò sono combinati tra di loro e gli aspetti interni a ogni sezione formale sono anch’essi permutati. L’es. 2 mostra come la sezione formale C è suddivisa in tre frammenti formali più piccoli (a, b e c). Qui si usano diversi tipi di glissando. Il glissando ascendente e ondulato deve essere suonato lentamente con poca pressione delle dita sulla tastiera ma molta pressione dell’arco (quasi sul ponticello). Il glissando discendente deve invece essere eseguito rapidamente, senza pressione delle dita sulla tastiera (come per realizzare i suoni armonici) e pressione ordinaria dell’arco al ponticello. I glissando sono realizzati con corde doppie e ad ogni frammento (a, b e c) si deve cambiare bicordo (a corde 2-3, b corde 1-2 e c corde 3-4). Tuttavia, ciò che più ci interessa non è la morfologia del materiale sonoro scelto da Oppo ma l’aspetto ciclico e combinatorio. In particolare ci interessa la permutazione delle sezioni formali di livello inferiore a C: i frammenti a, b, e c. L’es. 3 ci mostra lo schema che governa l’ordine di successione dei frammenti a, b, e c durante l’interpretazione, tale schema suggerisce ai due violinisti una serie di permutazioni possibili. Se il primo violinista segue lo schema originale abc-bca-cab, il secondo potrà interpretare lo schema in un’altra maniera come per esempio cab-abc-bca oppure seguendo un altro ordine a scelta. Tuttavia, il “caso” come elemento strutturante non implica che i parametri del suono siano senza controllo. Al contrario, come Oppo esplicita in un breve testo a proposito di Rondò: «l’impiego di metodi combinatori e statistici assicura che nulla venga abbandonato al caso in quanto statisticamente previsto e poi, poiché la probabilità implica l’alea reintroduce la casualità. Rispetto alle tecniche aleatorie si ottiene però la razionalizzazione dei procedimenti (cioè una sintassi dei materiali)» [Oppo 1979, 241]. Ciò che più mi interessa di questo breve lavoro è l’aspetto ciclico che invade tutti i livelli del comporre l’opera. Trovo molto stimolante rintracciare le relazione tra l’estetica iconoclasta degli anni 1970 fondata sulla cibernetica, sulla teoria dell’informazione e sull’alea rivisitata in versione europea, e le modalità tradizionali d’organizzazione dell’opera tramite schemi che sono fondati sulla ridondanza delle parti formali e sul ritorno dei suoi componenti più importanti micro-mutati. Il fatto che l’opera sia sperimentale non esclude l’aspetto sensoriale che resta al centro del lavoro del compositore di ogni epoca.
Altri interessanti esempi d’uso del rondò si possono osservare nel ciclo delle sei Piano Sonatas di Horatiu Radulescu composte tra gli anni 1990 e 2000. Radulescu fa appello a schemi formali generici – tipici anche dello stile di Bartok – basati sul principio di alternanza, come nelle architetture del tipo: A B A1 B1 A2 B2 A3 B3 ecc. Alcune volte egli usa anche sezioni contrastanti seguendo schemi del tipo: A B A1 B1 A2 B2 A1 C ecc. Tale tipo di organizzazione della forma globale è presente specialmente nei primi movimenti delle sue Piano Sonatas e rappresenta un tentativo sperimentale di fusione tra forme ripetitive e cicliche del passato con strategie derivate dalla musica spettrale.
Es. 1, Franco Oppo, Rondò, p.1.
Es. 2, Franco Oppo, Rondò, p. 2.
Es. 3, Franco Oppo, Rondò, p.2.
VIII. Cicli di pezzi: Les Espaces acoustiques di Gérard Grisey
I cicli di diversi pezzi indipendenti testimoniano la tendenza a ricercare un’unità stilistica attraverso l’uso di un medesimo materiale musicale iniziale che trasmetta la sua struttura essenziale all’intero ciclo. Non possiamo ora osservare delle importanti esperienze dell’Ottocento, come il ciclo di opere nello stile di Schubert, ma ci limitiamo a qualche esempio tratto dalla musica più recente. Les Espaces acoustiques (1974-1985), un ciclo di sei opere sonore di Gérard Grisey, è un caso emblematico nella musica della seconda metà del secolo. La funzione ciclica è amplificata al fine di produrre delle relazioni a distanza tra i pezzi e permetterci di percepire una stessa logica e una stessa sostanza sonora. Nel corso del XX secolo si posso rintracciare altri importanti esempi di cicli. Di Karlheinz Stockhausen possiamo evocare Licht (1977-2003) Die Sieben Tage der Woche (29 ore ca.) e Klang (2004-2007 incompiuto) Die 24 Stunden des Tages. Di Horatiu Radulescu ricordiamo il ciclo di sei pezzi per pianoforte solo Lao-Tzu: “Tao Te Ching” Piano Sonatas (1991-2007). Ricordiamo anche il ciclo composto da tre pezzi per ensemble elettrificato e elettronica Professor Bad Trip (1998-2000) di Fausto Romitelli.
Nel ciclo Les Espaces acoustiques di Grisey, il modello compositivo unificatore è preso in prestito alla fisica acustica. Il compositore ha fondato tutti i pezzi sullo studio degli armonici naturali di un solo suono di trombone. In ogni pezzo tale materiale è utilizzato secondo modalità diverse. Attraverso le tecniche di sintesi strumentale e metodologie tratte dall’elaborazione elettronica, Grisey costruisce un linguaggio musicale fondato sullo spettro naturale del suono. La ciclicità è osservabile anche a livello dell’organizzazione formale architettonica. In questi pezzi, il funzionalismo logico è un aspetto molto presente. Il compositore esplicita tali aspetti attraverso alcuni schemi pubblicati nelle notes pour l’exécution di ogni partitura del ciclo. Périodes (1974) per ensemble «propose un cycle non achevé de périodes “ternaires” analogues au rythme respiratoire: inspiration, expiration, repos» [Grisey 1974]. Un période ternaire è una parte formale composta di tre fasi: expiration (fase complessa che va verso la calma), repos (fase statica) e inspiration (fase dinamica in evoluzione). Questo schema generico è sfruttato in maniera periodica con l’uso di materiali ogni volta nuovi. Più precisamente, la fase (1) stabilité è seguita dalla fase (2) mouvement (crescita, sviluppo, tensione, aumento della complessità del testo sonoro e della densità delle componenti della musica) e dalla fase (3) distension (semplificazione progressiva verso una nuova fase di stabilità e una nuova materia sonora).
Grisey usa delle funzioni logiche primordiali organizzate in archi formali, queste indicano la presenza di principi tradizionali di gestione formale. La distinzione in funzioni energetiche e orientate rivela l’uso di una organizzazione della forma in funzioni secondo la retorica classica e l’uso di percorsi “narrativi” in musica. Tale pianificazione globale è tipica dell’epoca tonale (esposizione, sviluppo e ri-esposizione). Allo stesso tempo tale gerarchizzazione è legata certamente alle capacità cognitive primordiali dell’uomo così come alla nostra individuale maniera di percepire il suono. In questo stile spettrale, le funzioni logiche (stabilità, movimento e distensione) sono sincrone con il processo di elaborazione. L’architettura formale, l’aspetto schematico globale e la strategia di elaborazione sono fusi in un unico gesto compositivo. La funzione di inspirazione/movimento, per esempio, è una parte formale architettonica ma anche un processo compositivo di elaborazione organica e vettoriale. Lo schema periodico expiration-repos-inspiration, chiamato intenzionalmente da Grisey le devenir sonore (il divenire del suono), è contemporaneamente un’architettura e un processo. La vocazione “naturalista”, gestuale ed “energetica” della sua musica e la particolare sincronia tra processo e forma, sono influenzati dagli studi di psicoacustica[14].
Come nelle forme classiche e romantiche, nel linguaggio musicale di Grisey le funzioni logiche non sono reversibili. In altre parole, l’introduzione non può trovarsi al posto dell’elaborazione così come per Grisey l’espirazione non può essere succeduta dalla inspirazione senza la fase di riposo. Esse hanno una obbligatoria direzione di utilizzo, univoca e naturale, secondo la loro tensione intrinseca. La distinzione tra regioni stabili e instabili è lo scopo stesso del sistema tonale. In epoca classica e romantica, l’affermazione di una tonalità specifica e di un materiale sonoro tematico riconoscibile e caratteristico veniva messo in atto nelle parti di introduzione, di esposizione, di ripresa a distanza così come nelle parti finali e di coda dei componimenti. In queste parti formali i compositori del passato usavano funzioni logiche statiche per consolidare un contesto sonoro, un’estetica specifica, un materiale musicale oppure una struttura precisa. Al contrario, le parti di modulazione armonica e le fasi d’articolazione e di trasformazione della materia tematica ricoprono la funzione di instabilità, instabilità che caratterizza le parti dinamiche in evoluzione.
La presenza di funzioni logiche nel linguaggio musicale spettrale di Grisey non ha tuttavia senso equivalente rispetto ai sistemi appena evocati. Nel sistema tonale più componenti, a livelli formali molto diversi e indipendenti, costruiscono la musica e determinano le funzioni logiche: gli aspetti schematici, metrici e armonici, i materiali sonori di ogni sorta (melodia, ritmo, timbro, densità del testo, tecnica strumentale, linearità e verticalità). Essi si integrano, si sovrappongono e s’intercalano in un contesto di relazioni diverse. In Les Espaces acoustiques, si può osservare la condensazione di una moltitudine di aspetti in un solo continuo schema-processo dove le componenti architettoniche rappresentano il processo evolutivo della materia sonora: le devenir sonore. Nel linguaggio musicale di Grisey degli anni 1990, epoca durante la quale il compositore inizia a rinnovare il suo linguaggio spettrale attraverso elementi sonori più tradizionali, possiamo rintracciare altri esempi d’uso di forme musicali cicliche. La forma di Vortex temporum (1994-1996) per pianoforte e cinque musicisti, presenta numerose relazioni a distanza temporale tra le diverse parti dell’opera che tuttavia non è suddivisa in movimenti indipendenti ma è un flusso continuo di suono.
IX. Conclusioni
Nel XX secolo si è vissuta una generalizzata ossessione verso la creazione di un suono nuovo ma anche una mania per il recupero, il restauro, la conservazione, la riproduzione live o su ogni tipo di supporto delle musiche del passato, la ripetizione delle opere all’infinito e l’ossessione per la “giusta” interpretazione quasi distaccata dall’ambiente e dallo scenario culturale in cui si produce. È ancora più sorprendente che alcuni compositori del Novecento, innovatori del linguaggio musicale dell’epoca, oramai divenuti delle “stars” stiano subendo questo stesso trattamento dall’apparato mediatico; “vediamo” le loro opere – un tempo rigettate – oggi sovraccaricate di attenzioni che le renderanno sterili a breve. La musica “contemporanea” di oggi non reagisce certamente alla nostra realtà multiforme. I compositori sono sollecitati a produrre opere accademiche che si riferiscono a correnti di pensiero del XX secolo ormai superate e l’apparato comunitario domanda di uniformarsi a un’etichetta “musica contemporanea” sopprimendo di fatto la ricerca di nuove forme. Si imitano in modo maldestro i compositori più importanti del secolo scorso senza dare veramente attenzione alla realtà, senza ambire alla creazione di una nuova comunità di compositori che siano accomunati da un nuovo paradigma e da una matrice disciplinare condivisa. Queste pagine costituiscono uno schizzo di strategia di lavoro sul suono, strategia personale e ancora parziale, senza una vocazione di tipo teorico e priva di ogni interesse che miri a trovare una visione universale dell’evoluzione delle forme. Attraverso il mio studio ho cercato di mostrare come alcune pratiche compositive si siano evolute nei secoli e come alcuni principi di base, come quelli di variazione, possano essere impiegati (dal compositore) per leggere in modo anche trasversale un percorso sonoro eterogeneo che comprende molte epoche. Sembrerebbe necessario un più importante impegno per trovare un equilibrio tra l’approccio umanista e l’approccio sperimentale a carattere scientifico che oggi è spesso usato solo per nascondere l’esoterismo delle strategie compositive piuttosto che un reale ideale empirico. Questo equilibrio potrebbe essere trovato attraverso un approccio sensoriale e neuroscientifico: ciò che noi percepiamo (oggi) del suono può essere rivelatore del suo funzionamento interno e degli stratagemmi di composizione e ugualmente dei meccanismi di cognizione. La composizione musicale del nostro tempo non può fare astrazione di un approccio complesso e dovrebbe considerare i diversi domini della conoscenza musicale della nostra epoca: l’oralità (espressione del nostro spirito comunitario millenario e della nostra “incoscienza” e istintività), la sperimentazione musicale (considerata come cultura scientifica del suono ma ugualmente come pratica “mistica” del suono), la tradizione savante (sorgente di un sapere cristallizzato base per evoluzioni sempre nuove), le possibilità di cognizione del suono (approccio sensoriale, umanista e naturalista ma anche neuroscientifico), e infine la dimensione tecnologica odierna. Solo la piena coscienza dell’evoluzione delle forme di composizione può aiutare il compositore a evitare nuovi dogmi, e superare i paradigmi del passato integrandoli a nuove esperienze musicali e umane. Credo che un approccio che miri ossessivamente alla creazione escludendo la derivabilità e dunque l’evoluzione sia sostanzialmente non solo anti-scientifico (quindi non potrebbe neanche essere definito ricerca sperimentale), ma soprattutto, sia la manifestazione di una cultura anti-comunitaria e distrugga di fatto la possibilità di trasmettere il sapere tramite la pratica della composizione e far evolvere la disciplina.
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[1] Questa affermazione assiomatica è un’ipotesi dovuta al mio approccio al suono in quanto compositore e non solamente come musicologo. Il mio studio dell’oralità musicale (in particolare quella sarda), mi ha permesso di osservare alcuni sistemi di improvvisazione basati su variazioni microscopiche e su strategie ancestrali di apertura formale e trasformazione ciclica [Milia 2016]. Inoltre ho osservato il passaggio della “gestualità” della musica in quella del corpo durante la danza popolare sarda, ma anche, al contrario, il passaggio di “informazione” dal corpo danzante alle strutture del suono. Nell’oralità, più in generale, gli archetipi vengono micro-variati; un esempio sono i miti [Eliade 1969 e 1976]. La metafora del linguaggio musicale e il suo funzionamento simile al linguaggio verbale umano ci fa osservare che i “suoni” della lingua non sono infiniti ma circoscritti ad alcune modalità di emissione (associate a un aspetto semantico, al senso e al significato e in generale dovute all’ambiente culturale e alle sue specificità nella sfera dell’espressione). La reiterazione e variazione di questi “suoni” ci permette di strutturare il pensiero. Mi sono spesso appoggiato a testi come La nature formelle du langage [Chomsky 2012, 209]. Anche la semiotica può offrirci un piccolo appiglio: un segno è difficilmente percepibile se non confermato dalla sua ripetizione. Se un accordo di sesta napoletana non fosse un elemento ben riconoscibile ma fosse apparso una sola volta per “caso” e mai reiterato non potrebbe essere inserito in un sistema di comunicazione. Facendo riferimento al mondo animale si potrebbe pensare ai richiami e ai canti emessi dagli uccelli: vengono ripetuti sempre uguali con mutazioni specifiche e funzionali. La ripetizione ossessiva o con modificazioni è in tal caso fondamentale per la comunicazione di un’informazione. La mia strategia di lavoro compositivo si fonda dunque sull’osservazione di principi generali della linguistica e della semiotica, dell’antropologia e della teoria cibernetica, vorrei usarli come stimoli per una riflessione sul come organizzare il suono ma senza imporre al suono leggi precostituite. Non credo che la strategia compositiva possa svilupparsi e rinnovarsi se il compositore non è libero di usare la teoria e i paradigmi musicali con una certa flessibilità. Il ruolo dell’intuizione è molto importante nel comporre e la strutturazione di alcune tendenze apparentemente assiomatiche può costituire una vera sfida per il ricercatore-compositore.
[2] Imberty fa riferimento al pensiero dello psicologo dell’infanzia Daniel Stern, specialmente al testo La prima relazione (1981).
[3] A tal proposito mi riferisco alle critiche al neo-creazionismo mosse da Guillaume Lecointre in Les sciences face aux créationnismes [Lecointre 2012] e da Stephen Jay Gould in Et Dieu dit: “Que Darwin soit” [Gould 2013].
[4] Un altro articolo significativo scritto da Stockhausen nel 1961 è intitolato Invention et découverte. Essai de morphogenèse, qui il compositore precisa le sue nozioni di invenzione e scoperta in composizione, tale testo può aiutarci a percepire le preoccupazioni dei compositori dell’epoca sul tema della creazione sonora [Stockhausen 2016, 111-128].
[5] Per le nozioni di paradigma musicale e matrice disciplinare faccio riferimento a Genèse et révolutions des langages musicaux [Lai 2002].
[6] Tutte le citazioni tratte dai manuali di analisi di Ivanka Stoianova non sono state tradotte in italiano poiché considero il linguaggio di Stoianova estremamente specifico e molto raffinato, la traduzione domanderebbe una reale competenza per restituire al lettore una versione italiana affidabile. Ho deciso dunque di proporre la versione originale in francese. Ho mantenuto la stessa norma per altri autori.
[7] La metafora del narrativo in musica, specialmente riferendoci alla musica recente, è dovuta all’uso del contrasto formatore e delle connessioni a distanza. Un materiale sonoro in semplice e direzionale trasformazione ci fa pensare alla crescita di un organismo ed è un unico e vettoriale processo. Una musica narrativa è invece più frammentaria, non è soltanto un divenire sonoro, al contrario ci permette di distinguere delle figure sonore che si stagliano e ritornano (mutate oppure no), e che assumono, proprio perché non sono in divenire, una funzione più statica, definita e caratteristica, anche teatrale. Nella sua musica recente Horatiu Radulescu fa un interessante uso della metafora narrativa ibridando forme timbriche (in divenire o addirittura stagnanti) e forme cicliche più retoriche.
[8] Una unità sonora generatrice è ciò che noi percepiamo come elemento sonoro minimo e primordiale, a cui diamo un senso e che possiamo isolare dal contesto. La sua “dimensione” non è misurabile se non attraverso la percezione.
[9] Alcuni interessanti principi riguardo la percezione del suono e la cognizione della forma musicale si trovano nell’articolo The psychology of electronic music [Toiviainen 2007] e nell’articolo Algorithmic composition [Essl 2007]. Come anche in La musica e il cervello [Peretz 2002] e La percezione della musica (eredità remote, evoluzione delle teorie e approcci sperimentali) [Deliège 2002].
[10] Nei suoi scritti raccolti in Il Pensiero musicale del Novecento, Enrico Fubini espone la sua critica verso la filosofia di Adorno che avrebbe dominato il pensiero musicale lasciando ai margini alcune esperienze fondamentali che non sono state sufficientemente studiate da un punto di vista teorico. Fubini si riferisce in particolare a Debussy e a Bartok.
[11] Altri esempi d’uso della variazione: Georges Aperghis (1945): Variations (1973) per 14 strumenti; Eliot Carter (1908): Variations for Orchestra (1954-55) e Piano Concerto (1964-65) per pianoforte e orchestra; George Clumb (1929): Gnomic Variations (1982) per pianoforte; Helmut Lachenman (1935): Fünf Variationen über ein Thema von Franz Schubert (1956) per pianoforte; Witold Lutoslawski (1913-1994) : Variations symphoniques (1938) per orchestra, Variations sur thème de Paganini (1941) per due pianoforti e Variations sur thème de Paganini (1978) per pianoforte e orchestra; Olivier Messiaen (1908-1992): Thème et variations pour violon et piano (1934); Henri Poussieur (1929-2009): Methodicare: tome 1, volume 2: vingt-six ombres d’une même figure – treize variations pour instruments à clavier (pub. 1991); Igor Stravinsky: Variations, Aldous Huxley in Memoriam (1964) per orchestra e Choral-Variationen über das weihnachtslied “Vom Himmel hoch da komm ich her” (1955-56) per coro e orchestra; Anton Webern (1883-1945): Variationen für Klavier op. 27 (1935-36), per pianoforte e Variationen für Orchester op. 30 (1940).
[12] (1) Serenade für Klarinette, Baßklarinette, Mandoline, Gitarre, Geige,Bratsche, Violoncell und eine Tiefe Männerstimme op. 24 (1920-23) dove il III movimento è un Thema und Variationen (composto nel 1920). Le altre parti sono anch’esse delle forme cicliche (I Marsch, II Menuett. Trio, IV Sonett n. 217 von Petrarca, V Tanzscene, VI Lied e VII Finale). (2) Quintett für Flöte, Oboe, Klarinette, Horn und Fagott op. 26 (1924), il IV movimento è un Satz: Rondo. (3) Suite für kleine Klarinette, Klarinette, Baßklarinette, Geige, Bratsche, Violoncello und Klavier op. 29 (1924-26), il III movimento è un Thema mit Variationen (1925) e il IV movimento è una Gigue (1925–1926). (4) Drittes Streichquartett op. 30 (1927), il IV movimento è un Satz: Rondo. Molto moderato. (5) Variationen für Orchester op. 31 (1926-28). (6) Fourth String Quartet op. 37 (1936) il IV movimento è in forma di rondò. (7) Variations on a Recitative for Organ (in D) op. 40 (1941). (8) Theme and Variations for Full Band op. 43a (1943) e Theme and Variations for Orchestre op. 43b (1943).
[13] Prendiamo in prestito la definizione di Ivanka Stoianova: «Le rondo est une forme fondée sur la succession d’un thème (au refrain) reproduit systématiquement à distance et d’épisodes (ou couples): A B A C A D A … A, où A est le thème-refrain, B, C, D, les épisodes ou couples. Son principe est le renouvellement continuel du contraste entre le refrain et les épisodes […] et du contraste (ou similitudes) entre les épisodes à distance (B par rapport à C, C par rapport à D, ecc.)» [Stoianova 1996, 107].
[14] Nello scritto Devenir du son Grisey esprime la sua idea formale più significativa: i differenti processi di trasformazione di un suono in un altro suono costituiscono la base stessa del suo pensiero musicale. Secondo Grisey il materiale deve scaturire dal divenire sonoro – dunque non deve essere qualcosa che esiste prima dell’opera – non è necessario un materiale di base che poi verrà sviluppato (per esempio una cellula melodica o delle durate), ma è il processo stesso di mutazione del suono ad essere al centro della strategia compositiva [Grisey 2008, 27].